Andrea Jori
Scultore e pittore
L’opera di Jori Natività, il termine medio della Trilogia Amore, Natività, Crocefissione, ci induce a riflettere sul nesso arte-natività. Cosa ha a che fare l’arte con la natività? L’arte non è forse imita­zione, rappresentazione? O se non è imitazione, non è descrizione di stati d’animo, catarsi, liberazione e, in quanto tale, rappresenta­zione? Se così è, il rapporto arte-natività è un rapporto di dipenden­za autoritaria: arte come descrizione o liberazione della natività. Ma l’arte è natività in senso originario.
Cerchiamo di essere non troppo avventati. Prestiamo ascolto all’arte. L’arte è un fare, un produrre. “Produrre” è la traduzione italiana del verbo latino producere che significa “condurre innanzi, mette­re sulla buona via”. Che cosa produce, che cosa mette innanzi l’ar­te? Non certo oggetti fruibili di cui ci serviamo quotidianamente come le stoviglie o la biancheria. Quello dell’arte è un fare che riguarda la verità.
Verità in greco si dice aletheia che, letteralmente, vuol dire “s-velare”. Verità, originariamente, significa non-corrispondenza, non-imitazione, ma s-velamento cioè squarcio di luce in cui le co­se, illuminate, appaiono. La parola greca fa riferimento, quindi, non solo alla luce ma anche allo scuro. La verità in senso originario parla contemporaneamente di luce e oscurità. Che rapporto esiste tra lu­
ce e oscurità tenuti insieme dalla antica parola aletheia? È lei stessa che ce lo mostra: è un rapporto di intima coappartenenza, di mutua dipendenza. L’oscuro, infatti, non è qualcosa che si lasci s-velare totalmente: mentre si offre alla luce si trattiene.
Ma, allora, ciò che si mostra che valore possiede? Infatti se non è verità tutta spiegata, cioè se non è, come voleva Cartesio, chia­rezza e distinzione, che ne è della verità? Dobbiamo riascoltare l’an­tica parola: Aletheia.
Essa dice: dis-velare. Il disvelare per essere tale ha bisogno del na­scondimento. Il disvelare porta-fuori dal nascondimento ciò che è tenuto in serbo. Lo svelare è, quindi, incline al nascondersi. E ciò che Eraclito diceva al frammento 123: “La Natura ama nasconder­si”. Il nascondersi non è puro rinchiudersi ma è un trattener-si en­tro cui è preservata la possibilità del sorgere. Quindi il sorgere e il nascondersi non sono separati l’uno dall’altro, non sono due mec­canismi distinti, ma sono una medesima cosa. Insieme nominano l’apertura di un ambito unitario che dà senso alla molteplicità delle cose. Quest’ambito è come la folgore che governa tutte le cose cioè le condiziona ad apparire, a disvelarsi, restando essa stessa invisi­bile. Allora l’apparire, il mostrarsi, trova i suo fondamento nel­l’assenza. Paradossalmente possiamo dire che ciò che è chiaro e distinto è penetrato e dominato dall’oscurità, oscurità che non significa vacuo nulla, ma quel Ni-ente, cioè quel nulla di essente che destina alla presenza.
Il contrapporsi di luce e ombra è una lotta autentica dove gli anta­gonisti si elevano all’autoaffermazione di se stessi alla sola condi­zione di mantenere il rapporto agonico.
Verità, aletheia, parla originariamente di una lotta autentica, parla di Polemos.
E’ ancora la parola di Eraclito che ci fa strada. Polemos è contesa, lotta, opposizione originaria in cui ogni cosa consiste e da cui è ge­nerato. In altri termini, ciò che fa sì che ogni cosa sia quella cosa è questa sorta di contesa in cui ogni ente è legato agli altri in un rapporto di opposizione.
Polemos riunisce gli avversari ed è in esso che hanno origine tutte le leggi per quanto diverse esse possano essere.
Sembra che il discorso abbia perso la strada maestra: disorienta­mento. Prestiamo ascolto e chiediamo: che relazione esiste tra veri­tà e Polemos?
Parlare con verità significa dire come le cose stanno. Ma dire come le cose stanno significa vederle nel loro emergere dal buio, signifi­ca vedere il lampo dell’essere sull’universo. Polemos è il lampo del­l’essere che interrompe la notte del mondo. Polemos lascia esistere ogni singolo essere e gli permette di mostrarsi per quello che è. Po­lemos non è la passione devastatrice del selvaggio aggressore bensì è creatore di unità, è un’apertura di senso. Verità è Polemos.
Ancora però il discorso appare poco chiaro. Infatti se da un lato abbiamo fatto cenno al significato di verità, dall’altro il rapporto arte-verità non è stato esplicitato. Dobbiamo tornare indietro.
Si è detto che l’arte è un fare, un produrre. L’ascolto del verbo lati­no producere ci ha guidato: arte come condurre sulla buona strada. L’arte, cioè, porta-fuori, produce, un qualcosa che prima non era an­cora e lo pone alla luce. Ma che differenza esiste tra la produzione di una stoviglia e la produzione di una scultura? Non è forse anche nel primo caso un portare fuori un qualcosa che prima non esisteva? Certamente anche il fare di un oggetto non artistico è un condurre alla luce ciò che prima non era. Tuttavia un oggetto d’uso quotidia­no è l’essere formato da una materia in vista del suo impiego. Esse­re fabbricato significa essere immesso all’uso, al di là di se stesso. Una scultura, al contrario, non serve a nulla ma trova il suo senso solo in se stessa.
Acconsentire all’opera d’arte significa trasformare i nostri abituali rapporti con il mondo, significa sospendere ogni modo abituale di
 fare, di conoscere e di vedere, significa soggiornare nei pressi dell’opera. Questo soggiorno lascia che l’opera sia l’opera che è, in altre parole, fa sì che ci prendiamo cura dell’opera. È proprio in virtù di questa cura che l’opera si presenta. Quindi, perché un’ope­ra d’arte sia, risultano necessari l’artista, colui che la conduce alla luce, e il lettore, colui che se ne prende cura. Noi siamo lettori e quindi è da questa prospettiva che dobbiamo muovere.
Immerso nel visibile mediante il suo corpo, anch’esso visibile, il vedente non si appropria di ciò che vede: lo accosta soltanto, se ne prende cura. Visibile e mobile, il suo corpo è annoverabile tra le cose, è una di esse, è preso nel tessuto del mondo. Ma poiché vede e si muove, cioè tiene le cose in cerchio intorno a sé, le cose sono incrostate nella sua carne, fanno parte di lui: il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo. E poiché le cose e il corpo sono fatti della medesima stoffa, occorre che la visione si faccia in qualche modo in esse o meglio che la visibilità manifesta delle cose si ac­compagni in lui ad una visibilità segreta: “La Natura ama nascon­dersi’’. Ancora Eraclito.
La questione su cui c’eravamo impegnati a riflettere, arte-verità, comincia a chiarirsi. Ma andiamo per gradi. Un quadro, una scultura, non sono strumenti presi in prestito dal mondo vero per indicare attraverso di essi cose assenti. La pittura, la scultura, offrono al fruitore un’occasione di ripensare i rapporti costitutivi delle cose, ma offrono piuttosto allo sguardo le tracce della visione dell’interno: l’oscuro, l’interno, che struttura l’esterno, la luce. Sono solo tracce di interiorità, il resto è trattenimento in custodia. L opera d’arte è quindi essenzialmente urto, è sconvolgimento inevitabile dei ruoli abituali.
Chi guarda non è più il vedente ma è l’opera; è l’opera che parla, mentre il vedente ascolta. Che cosa ascolta il vedente?
Ascolta l’urto, la lotta tra l’interno e l’esterno, tra la luce e l’ombra. L’opera d’arte è allora il luogo in cui si attua la lotta originaria, in cui è conquistato il non essere nascosto delle cose: la verità.
Ciò non significa che qualcosa è esattamente rappresentato e riprodotto ma che un ente è portato e mantenuto nella luce. E
significa, originariamente, custodire. L’opera d’arte è l’istituirsi  e il prendersi cura della verità.
Se da un lato il discorso pare compiuto intorno al rapporto arte-verità,  ­dall’altro si è caricato di questioni intricate: sconcerto per il
pensiero. Abbiamo, infatti, chiamato in causa il lettore e attraverso il suo corpo abbiamo guardato all’arte e sentito l’antico suono della aletheia. Lo sguardo fatto di carne visibile ci ha condotti ad una visione inusuale: tracce di interiorità, l’invisibile. E’ questo il sentiero che siamo chiamati a percorrere e le opere di Jori ci faranno strada.
Roberto Botti, 1993

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